Critica letteraria...

nelle costellazioni poetiche

Giovanni Giudici: «nel sotto e nel soprammondo»

Scritto da Stefano Caiuli

Come è noto, Giovanni Giudici riceve in età giovanile una claustrofobica educazione cattolica che lo condurrà ad un «vicolo cieco». I debiti dichiarati nei confronti di Eugenio Montale, di cui ricorrono puntuali citazioni e nelle cui «miniere abbandonate» sembrava condannato (Fortini), complice quella oscurità espressiva difficile da rimuovere, sono evidenti nelle prime poesie databili alla fine degli anni Cinquanta della Vita in versi, la raccolta pubblicata nel 1965. Forte è anche, nella poetica di Giudici, l’influsso del suo «poeta preferito»: Umberto Saba, modello di un «tenero abbandono comunicativo», allo stesso tempo autore di un’«esplicita e indifesa manifestazione di sé».

Anche l’influsso di Gozzano è presente nella struttura del verso: l’ironia non attraversa solo il piano lessicale ma intacca anche il piano metrico-prosodico, apparentemente ancorato alle forme poetiche tradizionali, come Giudici chiarisce nel saggio La gestione ironica (1964).
Nella poesia intitolata (ironicamente) Mimesi, si rivela il fine conoscitivo (etico) di questa strategia retorica:

«[…] per smuovere un sorriso, / ho specchiato i pensieri della gente: / certo non senza ironia – ma troppo / celata non serve […]».

Tuttavia, l’accostamento del poeta all’etichetta sbrigativa di neocrepuscolare è stato scongiurato da Pier Vincenzo Mengaldo, che scrive:

«[…] il contagio tra aulico e prosaico in Giudici [è] meno evidente che in Gozzano, perché l’aulico (poco) è semplicemente immerso nello stesso terreno di cultura del prosaico».

Questo dialogo costante con la tradizione del nuovo arriva alla riscoperta di Dante: presenza costante nei suoi versi (più marcatamente dalla raccolta O beatrice, del 1972), il magistero dantesco è rintracciabile nel peculiare multilinguismo di Giudici, solido fondamento della Vita in Versi. Giudici scrive nella poesia eponima del suo intento di «trovare il sublime, l’infame, l’illustre», attraverso una narrazione in versi di questo «sotto e […] soprammondo», attingendo da una variegata umanità spettatrice: «gli astanti», affacciati al limbo delle «intermedie balaustre», queste ultime liricamente emblema della condizione di un individuo sospeso tra due mondi (si ricordi Ungaretti, da Stasera: «L’allegria: balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia» – simbolo in quel caso della vita del soldato, sospesa sull’abisso della morte).

Complessivamente, in questa fase, il fine ultimo della poesia di Giudici è il disegno o il ritratto mobile e dinamico – serio, tragico ma anche caricaturale – di figure umane che rispondano al progetto di «mettere in versi la vita», lontano dal monolinguismo lirico. All’interno di questo mondo descritto, agisce come una forza gravitazionale un ineludibile benché occulto determinismo, come emerge ne L’incursione sulla caserma:

«Ero immobile sotto un calmo cielo, / marzo pieno d’azzurro, ma quel cielo / non potevo vedere contro il nero / asfalto in cui premevo la mia faccia».

La novità della sua poesia sta nella sospensione tra sincerità e finzione: se gli effetti di abbassamento parodico saranno portati all’estremo dal vecchio Montale da Satura in avanti, è tutto di Giudici il gioco prospettico tra io autoriale e io finzionale, autobiografia e poesia.

L’impiego presso la Olivetti è fondamentale per approdare nella realtà culturale più importante del suo tempo. Il profondo senso religioso e, più specificatamente, cattolico, si intreccia non pacificamente con l’aura laicizzante dell’ambiente olivettiano, per fronteggiare il consumismo neoborghese – biasimato e stigmatizzato – che si respira nella vorace Milano del boom economico negli anni Sessanta («l’aria è gialla»).

Ne La resurrezione della carne, componimento inserito nella quinta sezione della Vita in versi intitolata L’educazione cattolica, le tracce di questo disagio o insofferenza interiore raggiungono l’apoteosi. Qui Giudici narra di un incontro-visione, probabilmente tratto da un episodio infantile, che coinvolge una figura che proviene «dai morti». È un personaggio che appare seminudo, con una «muta ristrettezza immane […] negli occhi»; il dubbio del poeta riguardo al senso di quella allucinata epifania si manifesta tramite una catena di interrogative:

«per ammonirmi, interrogarmi, discutere / la mia presenza: tu / qui cosa fai? cosa vuoi?».

Segue poi una dettagliata ekphrasis che rimanda a un’atmosfera lugubre, inquietante, spettrale: un orizzonte che sembra dovere molto alla poesia sepolcrale tipica del romanticismo inglese (Elegy written in a country churchyard di Thomas Gray, a sua volta ispiratrice dei Sepolcri foscoliani): «a mezz’aria al confine con il massimo / lume di quella penombra, schiene curve, / movimenti, rilievi di vertebre, / ulne, fratture, òmeri, ossa in cerca / di giusta sede in carni estranee, senza / ancora forma». Il riferimento biblico è al Libro di Ezechiele, capitolo 37: «Visione delle ossa secche». Proseguono le tracce di quella affannosa necessità di dialogo o resa dei conti: «Io non ho colpa. Ho aura di tanto strazio, / […] / perché tu / mi guardi, minacci un castigo?». Nel finale, come sottolinea Mario Boselli, si rivela che non di resurrezione si tratta, ma del desiderio di una seconda morte: «si accostò al muro con i denti… Allora io capii che voleva / mordere quei veleni». La tensione di un incubo viene amplificata dall’incombere di un presente immobile, che tuttavia si moltiplica sul piano dell’azione grazie allo sdoppiamento dell’entità enunciativa, alla focalizzazione interna del poeta-autore-personaggio.

Vladimir Nabokov a Berlino: una breve analisi – di Elena Abate

Presento due opere di un autore di origine russa, Vladimir Nabokov, nato a San Pietroburgo a fine ottocento e scappato all’estero a seguito della rivoluzione russa dell’ottobre 1917. Stabilitosi prima in Germania, poi naturalizzato americano, Nabokov nella sua prima produzione russofona analizza l’esperienza degli emigrati russi nelle città europee principali, prima tra tutte la sua Berlino.

Partiamo con la sua prima opera, Mashen’ka o “Mary”: 1922, Berlino. Seguiamo le vicende di un gruppo di russi emigrati dopo la rivoluzione d’Ottobre nella speranza di rifarsi una vita. Il protagonista, Lev Glebovich “Ganin” (come si evince da un passaporto falso), si ritrova nell’ascensore rotto, nel buio più totale, con Aleksej Ivanovich Alfërov, il suo sgradevole vicino di casa. I due non si sono mai parlati prima, e Alfërov ne approfitta per annunciare che il sabato successivo sua moglie lo raggiungerà. 

A Ganin non importa per nulla, ma si sorbisce il racconto e solo più tardi, ormai fuggito dall’ascensore, raggiunge la sua fidanzata Ljudmila, che però trova sgradevole e irritante. 
Più avanti, nel cuore della notte, Alfërov si mette a canticchiare e Ganin non riesce più a sopportarlo: decide allora di bussare alla sua porta per zittirlo, ma Aleksej Ivanovich lo invita a entrare nella stanza e guardare le sue vecchie foto, tra cui quella che raffigura sé stesso e la moglie, Mashen’ka. 

Ganin ne rimane stupefatto. Senza dire più nulla, esce dalla stanza e torna a letto. Nei giorni successivi ripensa a Mashen’ka. Si reca da Ljudmila per lasciarla, perché si è innamorato di un’altra. Nel corso del racconto scopriamo che Mashen’ka era la stessa donna che lui amò per quattro giorni intensi durante la sua vita in Russia, poco prima di scappare dal Paese, nel 1917. 

I personaggi: come ha specificato Nabokov stesso nella prefazione al romanzo, Ganin è chiaramente un self-insert dell’autore; molti dei suoi ricordi riguardo la campagna pietroburghese e il successivo trasferimento in Ucraina provengono da Nabokov. Che questa donna sia esistita davvero? Verso la fine, quando Mashen’ka è quasi arrivata a destinazione, scopriamo il suo vero ruolo nella vita di Ganin (cito testuali parole): “[…] gli sarebbe stata restituita tutta la sua gioventù , la sua Russia.” 

Forse Mashen’ka non è una personificazione della Russia, ma è sicuramente una spirale dei suoi ricordi nella terra natia; ella rappresenta un passato (la vita nella Russia imperiale, o direttamente LA Russia imperiale) al quale non si potrà più far ritorno. 

Gli altri personaggi posseggono un ruolo circostanziale: il vecchio poeta Podgjatev, col quale osserviamo la cruda realtà dei russi a Berlino che non hanno più soldi per mantenersi e sperano di trovare fortuna viaggiando ancora e chiedendo sostegno ai parenti già scappati; Klara, l’amica di Ljudmila innamorata di Ganin, nonostante sia convinta che l’uomo sia un ladro e un farabutto; l’irritante e infantile Alfërov, che non si rende conto del matrimonio di convenienza in cui è incappato. Lo stile di scrittura è molto elegante, coinciso, i personaggi piuttosto approfonditi.

Non sarà l’ultima volta in cui Nabokov utilizzerà questa cornice. la stessa identica trama viene riproposta in “L’occhio” I protagonisti Smurov e Vanya, sono un riferimento parodico a Vanya Smurov, il protagonista di “Ali” di Kuzmin, un racconto pubblicato a seguito della rivoluzione russa del 1905 in aperta protesta col regime zarista. Nella sua opera, Michail Kuzmin intendeva dipingere positivamente le relazioni omosessuali. Il racconto di Nabokov parte con il suicidio del protagonista-narratore, di cui non sapremo il nome almeno fino alle ultime pagine. Da quel momento in poi, ci ritroveremo di fronte a un fantasma che “osserva” la vita degli altri, oltre alla propria. È, appunto, una spia. Il concetto di anima trasparente e osservatrice della propria e altrui interiorità tornerà in “Invito a una decapitazione”.

Conosciamo un librario, Weinstock, il quale è convinto che a Berlino stiano arrivando delle spie russe. L’ambientazione è, appunto, di nuovo autobiografica.

Il protagonista è morto, dunque comincia a vivere un’illusione. Cambia appartamento e frequentazioni. Interloquisce con cinque personaggi- tra cui Vanya, una ragazza di cui è infatuato- e da tutti pretende che venga data una visione diversa di Smurov. Smurov diventa l’immagine specchiata a cui fare riferimento. C’è chi lo considera un bugiardo, chi un ladro, chi un farabutto. in tutte queste opere, emerge il distacco da parte di  Nabokov di un’identità spezzata, non più sua. Racconta uno spaccato storico delicato e complesso, pregno di incongruenze, punti di vista dissonanti.

Il Maestro e Margherita (Michail Bulgakov) – Recensione di Marco D’Agnano

Michail Bulgakov (Kiev 1891 – Mosca 1940), per gran parte della sua carriera è costretto a fare i conti con l’aggressiva censura russa. Ed è in questo contesto che nasce Il Maestro e Margherita, un romanzo fantasioso e grottesco, che nasconde, più o meno velatamente, una critica all’Unione Sovietica e alla censura dell’arte tutta.

Trama

Michail Aleksandrovic Berlioz, direttore di una rivista letteraria e del MASSOLIT (Letteratura di massa), e il poeta Bezdomnyj siedono su una panchina agli stagni Patriaršie e, bevendo un succo, discutono di un nuovo lavoro commissionato che deve dimostrare incontrovertibilmente che tutta la vicenda di Cristo non è mai avvenuta. Presto vengono interrotti da uno strano individuo, uno straniero, che si permette di dissentire e che prende a raccontare di cosa successe duemila anni or sono in Terra Santa, quando l’ebreo Jeshua Hanozri (nient’altri che Gesù di Nazareth) fu condannato alla crocifissione. Al termine di questo strano e fantasioso racconto, però, lo straniero si rivela molto pericoloso, perché profetizza la morte di Berlioz, che, puntuale, si verifica. Bezdomnyj, spaventato, vorrebbe denunciarlo, prova a inseguirlo, incontra la combriccola di aiutanti dello straniero – tra cui vi è uno strano e divertentissimo gatto bipede – si reca al MASSOLIT, dove nessuno gli crede e viene spedito in manicomio. Intanto a Mosca lo straniero, di nome Woland, si esibisce al Varietà, in uno straordinario spettacolo di magia nera e nei vari capitoli assistiamo a eventi straordinari, i soldi diventano cartacce o la valuta russa diventa straniera e fa finire in carcere una povera vittima ignara che era sicura di aver avuto in pagamento solo rubli e nient’altro. Bezdomnyj faceva bene, quindi, a temere Woland, ma ora era chiuso in manicomio, confuso per un pazzo. Qui fa la conoscenza del Maestro, uno scrittore che ha difficoltà a pubblicare il suo romanzo sulla passione di Cristo, a causa della censura. Questo lo porta alla rovina e all’insanità mentale e perde anche la sua amata Margherita, una donna sposata, ma infelice. Tutto questo è contenuto solo nel primo libro, mentre il secondo si concentra sulle avventure di Margherita e fa sì che tutti i nodi vengano al pettine. Già, però, è stato rivelato abbastanza e queste informazioni sono sufficienti per individuare alcuni elementi fondamentali del romanzo.

Analisi

Il romanzo, come detto, è diviso in due libri: il primo è meno uniforme (non è un difetto!), perché presenta un gran numero di personaggi, forse quasi una ventina, vittime dei disastri di Woland e compagni, mentre il secondo si concentra unicamente sulla storia di Margherita. La storia presenta due archi narrativi, quello della Mosca del ‘900 e quello della passione di Cristo (i capitoli ad essa dedicati sono stupendi). Il romanzo in originale è scritto sicuramente molto bene e la traduzione di Vera Dridso, Einaudi, gli rende ampiamente giustizia.

Si può dire che sia quasi un romanzo autobiografico? Sì. Se analizziamo un momento i temi del romanzo, come la censura o il rapporto con la religione e li confrontiamo con la vita di Bulgakov, vediamo proprio come i primi siano figli della seconda: Bulgakov era nato in una famiglia religiosa e aveva avuto grandissime difficoltà con la censura. Il romanzo fu tagliato pesantemente e solo negli anni ’60 a Francoforte inizia a circolare la versione filologicamente corretta.

Conclusioni

Il Maestro e Margherita è un romanzo di difficile lettura, che prende anche parecchio tempo per costruirci l’ambiente e le vicende, ma è un libro che deve essere letto, perché è satira, è teologia, è commedia, è horror, è amore, è poesia. Il Maestro e Margherita è uno di quei rari libri che ti fanno ridere, riflettere, rabbrividire e commuoverti. Il Maestro e Margherita, come disse Eugenio Montale, è un miracolo che ognuno deve salutare con commozione.

“I manoscritti non bruciano”

Vittorio Bodini e la poesia europea – Serena Serafino

La poesia di Vittorio Bodini si colloca in una posizione originale rispetto al canone ermetico novecentesco, aderendo in parte ai suoi stilemi ma distanziandosi per avanzare verso l’apertura a coordinate culturali mediterranee ed europee, come abbiamo visto nel fenomeno della rivista “Vedetta Mediterranea”, anche detta “il bollettino dei fasci di combattimento della terra d’Otranto” bloccato dal regime fascista visto l’eccessivo impulso europeista.

Donato Valli rileva come Bodini si muova lungo l’asse di una “grammatica ermetica meridiana”, dove il lessico rarefatto dell’Ermetismo si piega alle istanze storiche e sociali del Mezzogiorno, anziché rifugiarsi in un’introspezione assoluta, quindi spostandosi dall’idillio alla realtà contadina del Salento.

In L’onore del Salento, Valli evidenzia come Bodini costruisca un linguaggio poetico radicato nella geografia e nella memoria storica, rendendo la sua opera un crocevia fra lirismo simbolico e denuncia civile.

Nel saggio “Conformismo e vocazione classica” pubblicato su “L’Esperienza Poetica” in collaborazione con Oreste Macrì, Bodini rivendica una forma poetica capace di resistere tanto al decorativismo ermetico quanto al conformismo ideologico. 

In “La luna dei Borboni” (1962), la tensione ermetica si manifesta nella densità metaforica e nella frammentazione sintattica, ma è continuamente forzata da un impulso narrativo e visionario, che attinge al surrealismo spagnolo, come affermato dallo stesso Bodini nell’introduzione a “I poeti surrealisti spagnoli” l’anno seguente.

Antonio Giannone  approfondisce il Bodini “pre-lunare”, evidenziando l’evoluzione da un simbolismo oscuro a una poesia più diretta, seppur sempre metafisica, tipica della chiave surrealista europea. Guido Guglielmi inserisce Bodini in una genealogia delle avanguardie, mostrando come l’autore salentino anticipi un dissenso critico verso l’Ermetismo classico, pur conservando la tensione stilistica. Anche Frattini lo colloca in un crocevia tra Ermetismo e Neoavanguardia, riconoscendone l’ibridazione formale.

by Serena Serafino

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